martedì 22 ottobre 2013

Donald Barthelme e la post-modern fiction americana

Donald Barthelme: Atti innaturali, pratiche innominabili



Nel superamento e nel rifiuto della narrativa “tradizionale” – che di per sé non è cosa nuova, se pensiamo che i clichés del romanzo borghese sono stati ripetutamente messi in discussione e abbattuti nel corso del XX secolo, quantomeno dagli anni ’20 in poi – il movimento letterario della post-modern fiction americana che attraversa gli anni ’60 con grande fecondità e originalità di contributi (John Barth, Thomas Pynchon, Robert Coover, Walker Percy, William Gass), ha in Donald Barthelme (Philadelphia,1931-Houston, 1989) una delle figure più singolari e rivoluzionarie.

Autore assai prolifico di racconti brevi, romanzi, narrativa per bambini, negli anni ’50 Barthelme fu prima giornalista, in seguito direttore del Contemporary Arts Museum di Houston, mentre, parallelamente alla letteratura, coltivava un particolare interesse per le arti grafiche.

Trasferitosi a New York, nel 1961 divenne direttore editoriale di “Location”, rivista che si occupava dei rapporti fra arti visive e scrittura. Ciò gli diede l’opportunità di sviluppare e condensare i suoi molteplici interessi, grazie ai contatti con gli artisti della cosiddetta “New York School”, un gruppo di pittori (per lo più espressionisti-astrattisti) e scrittori-poeti del tutto estranei alla tradizione contemporanea nella poesia in lingua inglese.

Sono evidenti le corrispondenze fra arte visiva e scrittura: la lingua è un oggetto contenuto in un quadro descrittivo, una rinuncia alla conoscenza nella misura in cui (sorry...) (su imprescindibile legazione di Wittgenstein) la nominazione è unicamente un surrogato dell’oggetto nominato, non vi è messaggio se non quello che indica la realtà senza la sua ri-rappresentazione da un punto di vista onnisciente. L’arte stessa, dunque, è l’oggetto – come indica a sua volta la pop-art.

Nelle short stories di Barthelme la forma determina il contenuto: la “narrazione” è la tela di un quadro pop, gli elementi che ne costituiscono la morfologia surreale sono improntati ad un ludicismo che – desemantizzando la parola, rinviata ad una polisemia cui fa da contrappunto l’elemento grafico, e dando così luogo a uno straniamento a duplice livello dove l’immagine può essere tanto didascalica quanto una contraddizione del racconto con intento parodistico, banalizzante – richiede la partecipazione del lettore nello stesso modo in cui esso sarebbe coinvolto in un gioco o in una pratica sportiva.

Il lettore deve essere intrattenuto da una narrazione che decostruisce e riassembla un linguaggio fatto di oggetti, non di eventi, di antistereotipi e distorsioni che costringono a riconsiderare le relazioni che siamo abituati a cogliere fra questi elementi e il loro ambiente.
► Lo sai cosa diceva Marilyn Tennyson?

Sono gli anni warholiani dell’immagine (di Marilyn Monroe [per le chiuerz]) consegnata ad una parossistica pala iconografica, dell’oggetto d’uso comune che diventa opera d’arte e come tale percepito e fruito dal pubblico che che si misura quotidianamente con la paglietta Brillo o con lo scatolame Campbell: una sottolineatura, in fondo, dell’assunto benjaminiano circa l’impossibilità di una creazione artistica originale con l’avvento di tecnologie che offrono la possibilità di una riproduzione ad infinitum dell’oggetto di “godimento estetico” (nelle sue innumerevoli implicazioni), in tal modo sottratto al senso della propria unicità.

Nel sovversivo titolo di una raccolta di racconti di Barthelme, Unnatural Acts, Unspeakable Practices, nulla ci impedisce di leggere anche una summa della temperie culturale che caratterizza l’estetica della pop-art a fronte del ribaltamento in chiave paradossale della lettura delle arti visive in particolare data da Walter Benjamin

Ecco dunque l’“atto innaturale” di Barthelme, il travaso in un oggetto (il libro) degli infiniti oggetti che costituiscono il linguaggio, o meglio, l’assunzione di un oggetto a motivo narrativo, il che implica una serie di domande che Barthelme pone a se stesso confrontandosi con le aspettative del lettore: come vogliamo giocare con questi oggetti nell’ambiente in cui viviamo? Qual è l’esperienza estetica che questo tipo di approccio suscita in noi? Che cosa pensiamo di una società che fa di una minestra in scatola un’opera d’arte? Uno sforzo maieutico condotto contro di sé, prima che un vano interrogativo rivolto al pubblico. Tale attitudine – inutile dirlo – rifugge da qualsiasi giudizio di valore pregiudicato (in termini artistici, ossia l’attesa da parte dell’autore di un riscontro del fruitore rispetto all’apologo richiesto dal suo atto di comunicazione).

Guardando indietro nel tempo (o altrove nel mondo) troviamo Barthelme compagno di Sterne, di Borges, di Buzzati, per esempio: nella rappresentazione (questa sì) di incertezze anziché di ipotesi, impegnato nell’assemblaggio di finzioni anziché nella tessitura di intrecci o la presentazione di resoconti, nella distruzione sotto specie parodistica di convenzioni narrative, nell’abolizione di linguaggi abusati che favoriscono la proliferazione degli stereotipi maldestramente (o calcolatamente) ascritti al soddisfacimento di aspirazioni pop-olaresche.

I racconti di Donald Barthelme in genere non superano le dieci pagine, quasi sempre di registro giocoso (anche laddove l’autore svolge in modo più o meno mimetico riflessioni di carattere estetico-filosofico), si sviluppano spesso intorno a un oggetto o un fatto all’apparenza insignificanti e comunque assolutamente straniati (una montagna di vetro che sorge improvvisamente a Manhattan, The Glass Mountain, una mongolfiera che fluttua nel cielo di New York, The Balloon, una cane che precipita da una finestra addosso al suo proprietario, The Falling Dog). Altre volte Barthelme reinventa, rilegge in un non-plot parodistico personaggi e/o eventi (Cortés and Montezuma, Robert Kennedy Saved from Drowning, Kierkegaard Unfair to Schlegel) o si intrattiene amabilmente con artisti "suoi contemporanei" (Conversations with Goethe, Paul Klee), rivisita topoi della tradizione letteraria (Eugenie Grandet, The Death of Edward Lear [► Lo sai cosa diceva Lord Tennyson?], Bluebeard), attitudini, luoghi comuni, caratteri e candidati eroi della società americana.

I risultati sono sempre godibili ed esilaranti, l’ironia acquista sulla pagina (spesso concepita come una partitura cui partecipano parola, disegno che suggerisce e fuorvia, veri e propri segni di pausa, interruzioni, dissolvenze, black-outs temporanei, elenchi numerati) una sorta di fisicità, una sfida all’immaginazione del lettore a diventare spettatore di uno spettacolo comico, in un’incalzante giustapposizione di slapstick, cartoon, auto-interviste, a parte, impietosi (in quanto dubbi) ammiccamenti, richiami e citazioni che non transigono sul bagaglio di conoscenze del pubblico.

Quando il sipario cala, non è detto che non debba improvvisamente essere rialzato. Ma alla fine Barthelme non ritornerà sul proscenio per concedere il bis, pur avendo fatto del suo meglio affinché noi lo richiedessimo a gran voce.

Un sito da non perdere, con racconti, estratti, letteratura critica, saggi, bibliografia (in inglese)

► jessamyn.com : Donald Barthelme's barthelmismo


(PS: Suggestioni barthelme-iane? )




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